A partire da questo, ogni nuovo album estrapolerà la vita di uno dei curiosi personaggi della leggenda. Altor è appunto il maniscalco, molto rude e dal fisico possente come illustra la cover artwork di Massimo D’Onofrio; colui che ha forgiato la spada Kephren utilizzata per uccidere Mozul, un demone portatore di sofferenze nel regno come è narrato nel sesto capitolo “Chapter VI”. Per la figura del fabbro la band ha utilizzato come ispirazione il cantante Giuseppe Cialone dei Rosae Crucis.
L’album alterna somiglianze al sound dei faroesi Týr nei pezzi più carichi, mentre in quelli più soft quello degli italiani Rhapsody of Fire, di cui una collaborazione finale all’interno dell’album stesso.
“Altor: the King’s Blacksmith” parte con un intro strumentale molto avvincente poi si tuffa subito in “Childwood” ossia nell’infanzia del nostro fabbro. I primi brani, dal suono molto pulito, molto fluenti all’ascolto trasportano intensamente nella vita di questo fabbro. Poi la ballad “Lillibeth”, un portale che ci catapulta alla fine degli anni Ottanta, inizio Novanta nella dimensione delle ballate degli Europe o dei Guns’n Roses, si allontana molto dalla saga raccontata, le parole d’amore, i suoni incantati degni di una canzonetta adolescenziale non vanno ad inquadrarsi bene nella totalità del quadro di Altor.
Parte “A new Beginning” che ci fa tornare sui nostri passi, i primi secondi sembrano essere una canzone di Axel Rudi Pell poi la grinzosità e spiccatezza dei suoni, l’ aggressività della chirarra di quello che doveva essere un brano in collaborazione con Brian May, il chitarrista dei Queen, nonostante l’assenza del famoso chitarrista questo pezzo riesce molto bene. Arriva dunque la canzone dedicata alla spada, l’oggetto restauratore della pace nel regno “Kephren”, armonicità impeccabile e un senso di inquietudine creano un ossimoro perfetto che fa si questo risulti essere il brano migliore dell’intero album. A concludere, dopo un brano power classicheggiante “ Screams in the Wind” la collaborazione con Fabio Lione, voce dei Rhapsody of Fire, ( ex Vision Divine ) “A Dark Prison”, pezzo dal retrogusto cupo, un’insistente batteria che penetra nella testa e la combinazione con le tastiere delicate riportano un’atmosferica sinfonia davvero di completa e intensa creazione per chiudere l’album.
Spicca su tutto la voce potente e altisonante del vocalist Marco Palazzi figlio della miglior lezione di Stratovarius.
Per gli appassionati del fantasy questa saga e la parallela descrizione dei suoi personaggi riesce molto bene ed è molto più scorrevole di un qualunque tomo voluminoso nei quali facilmente ci si perde. Ma soprattutto per gli appassionati del power è un lavoro assolutamente riuscito. Molto sorprendente in alcuni passaggi.
Promosso a pieni voti.